Il maxi-emendamento che va contro corrente

Il recente maxi-emendamento alla legge di bilancio 2025 potrebbe introdurre modifiche profonde al Piano Transizione 4.0, una delle principali politiche industriali dell’ultimo decennio. Questi cambiamenti, che prevedono un tetto di spesa per il 2025 e l’eliminazione del credito d’imposta per l’acquisto di software 4.0, sollevano numerosi interrogativi sul futuro delle imprese italiane e sulla strategia economica del Paese.

 

Le novità del maxi-emendamento

Il maxi-emendamento prevede un limite di spesa di 2,2 miliardi di euro per gli investimenti incentivati nel 2025, con una possibile estensione fino al 30 giugno 2026 per gli ordini confermati entro il 2025 con un acconto minimo del 20%.

Inoltre, anticipa al 31 dicembre 2024 la scadenza del credito d’imposta per i beni immateriali, come i software 4.0, tagliando prematuramente uno strumento fondamentale per la digitalizzazione delle imprese.

Questi interventi si sommano alla riduzione delle aliquote già introdotta negli anni precedenti, che ha già ridotto l’attrattività del piano.

Se apportate, le modifiche segneranno un drastico ridimensionamento di uno dei pilastri dell’innovazione industriale italiana. Il Piano Transizione 4.0 aveva già subito una progressiva riduzione del budget e della portata, ma il taglio agli incentivi per i software rappresenta un passo particolarmente problematico, considerata l’importanza della digitalizzazione per la competitività internazionale.

 

Le conseguenze per le imprese

La decisione di ridurre gli incentivi mette a rischio l’innovazione delle imprese italiane, in particolare delle PMI, che costituiscono l’ossatura del sistema produttivo nazionale. Queste aziende, già colpite da costi energetici elevati e dall’inflazione, potrebbero vedere ulteriormente ridotta la capacità di investire in tecnologie avanzate. I software 4.0, infatti, non sono accessori, ma strumenti strategici per l’ottimizzazione dei processi produttivi, la gestione dei dati e la sostenibilità aziendale.

Una scelta a nostro modo di vedere estremamente miope visto che il software rappresenta un elemento imprescindibile nei processi e nei percorsi di digitalizzazione e ammodernamento.

Basti ricordare che il software, che tipicamente ha un impatto economico minore rispetto ai macchinari ma ne implementa la capacità di scambiare dati con il sistema produttivo aziendale, è sempre stato agevolato a non più del 20%, eccezion fatta per una “fiammata” nel 2022 in cui retroattivamente veniva agevolato al 50% per tutto l’anno, salvo poi tornare al 20% per l’anno successivo, al 15% per quello dopo e adesso allo 0% invece del 10% a cui era destinato per legge.

L’assenza di un supporto mirato rischia di escludere molte imprese dalla quarta rivoluzione industriale, accentuando il divario tecnologico con gli altri Paesi europei. È come pigiare sul pedale del freno della trasformazione digitale proprio nel momento in cui questa avrebbe bisogno di nuova accelerazione.

 

Criticità nella gestione delle risorse

L’introduzione del tetto di spesa di 2,2 miliardi di euro appare anacronistica, considerando l’ampia domanda di innovazione nel settore privato. Limitare il budget significa imporre un freno al rinnovamento del tessuto industriale, con un rischio concreto di concentrare le risorse su pochi grandi attori, escludendo le PMI.

Inoltre, la cancellazione del credito d’imposta per i software 4.0 sembra contraddire le promesse del Governo di sostenere la transizione digitale e la competitività. Nonostante le dichiarazioni sull’importanza di investire nel futuro, le misure adottate sembrano più orientate alla riduzione del deficit pubblico che alla creazione di valore economico.

 

Un passo indietro per la competitività

La decisione del Governo sembra dettata dalla necessità di contenere la spesa pubblica, ma i costi a lungo termine potrebbero superare i benefici immediati. Il mancato supporto alla digitalizzazione rischia di rallentare la crescita del PIL, di ridurre la produttività e di compromettere la capacità delle imprese italiane di competere sui mercati internazionali.

In un contesto economico già complesso, caratterizzato da incertezze geopolitiche e dalla transizione ecologica, l’innovazione tecnologica è una leva fondamentale per affrontare le sfide del futuro. Tagliare gli incentivi non è solo una scelta discutibile, ma rappresenta un passo indietro rispetto agli obiettivi di crescita e sostenibilità.

Tra le cose che meravigliano maggiormente è che la notizia giunge poco dopo la pubblicazione del rapporto intermedio di valutazione “Gli incentivi in investimenti 4.0: una valutazione dell’impatto della misura”, curato dal Comitato scientifico per la valutazione dell’impatto economico degli interventi del “Piano Transizione 4.0” e composto da rappresentanti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, del Ministero delle Imprese e del Made in Italy e della Banca d’Italia.

Da questo rapporto emerge che nei primi tre anni di applicazione del Piano Transizione 4.0 le imprese italiane hanno maturato complessivamente 29 miliardi di euro di credito d’imposta per investimenti destinati alla digitalizzazione del sistema produttivo. Di questi, circa 23 miliardi di euro, pari a oltre l’80%, sono relativi a investimenti in beni materiali 4.0. I 29 miliardi di incentivi hanno stimolato maggiori investimenti con ricadute positive sull’occupazione e sui ricavi delle imprese beneficiarie.

 

Un’occasione sprecata?

La revisione del Piano Transizione 4.0 rappresenta un segnale preoccupante per il futuro delle imprese italiane. Invece di rafforzare il supporto alla digitalizzazione e all’innovazione, il Governo sembra privilegiare una visione di breve termine, ignorando le implicazioni strategiche delle sue scelte. Se l’obiettivo è davvero quello di costruire un sistema economico competitivo e resiliente, allora è necessario un cambio di rotta.

È chiaro l’intento del Governo di cercare di obbligare le aziende a rivolgersi alla misura Transizione 5.0 che tuttavia ha già fatto perdere un anno alle aziende italiane considerato le tempistiche di pubblicazione dei decreti e delle relative linee guida ad agosto di quest’anno. La misura 5.0 rimane ad oggi un flop dal punto di vista delle adesioni delle aziende e attestano una prenotazione (si badi bene, “prenotazione” non significa erogazione) dei potenziali benefici poco più del 2% delle risorse disponibili, se consideriamo le declamazioni del ministro Urso che già a giugno prometteva la piena fruibilità della misura 5.0 per le aziende italiane.

Questa misura è stata accolta da diversi imprenditori come fumosa, complicata, carica di zone grigie, poco fruibile e “potenzialmente inaffidabile e pericolosa”.

Il rischio è quello di compromettere il percorso di modernizzazione industriale, lasciando le imprese italiane indietro rispetto ai concorrenti europei e globali.

L’evoluzione delle nostre aziende non è un lusso, ma una necessità. E ora più che mai, le scelte fatte oggi determineranno il futuro dell’economia italiana.

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